It happened all in one night

by Amalia Piccinini

 

When I moved to New York in 2005 people kept telling me that the city had changed in the last ten years, that the hellish atmosphere and the bad reputation that movies had contributed to creating over the years had vanished.

Nonetheless, to me it still didn't seem safe... of course, you could take the subway without being afraid, the police were everywhere, people walked around without showing signs of anxiety, and yet...

I used to walk around the city at all hours, even at night, I was living in Greenwich Village and outside the homes of famous actors I could see homeless people sleeping and urinating right on their steps. Others were on street corners, shouting at me while they held out a cup asking for small change. One night I offered a homeless woman a slice of pizza, but she proudly told me to go to hell, leaving me there helpless still holding the box.

Pietro Reviglio has defined these scenes, as well as hundreds more, the Cinematography of Urban Madness.

Looking over the pictures in his book and reading the fragments of a screenplay interrupted by a gunshot perhaps, or even by one of the many stories I described before, you can't help but feel the claustrophobia, the suffocating anguish.

The protagonist - an artist alone in his studio - could be one of Charles Bukowski’s neighbors from the time when he lived in dirty old rooms, surrounded by talented but eccentric characters. The kinds of neighbors he'd come to miss when they were finally forced out by rents that were too high, leaving him without his inspiration.

But this is not Bukowski’s Los Angeles, this is a New York interior with a similar atmosphere, where a man fiddling with a lightbulb loses his balance. Night and solitude, much like two girl friends, watch him as he cuts a canvas with one sharp blow.

None of us understands what this man is doing, we worry about him - is he alive?

It would look that way. In the following photographs we see a window blocked by piles of books; reading the screenplay we now see there’s a woman with him, but when did she get there?

Tension rises, the bell rings, the man grabs a knife and heads for the door. The visitor is taken inside the apartment, the door closes. Like in a painting by Francis Bacon we see the man-artist seeking refuge in a bathroom, torturing himself in front of a sink and a mirror, asking the woman to turn off the light. Then he washes his hands.

We don’t know why, but we imagine something ugly has happened, does the man kill himself? Does the woman kill herself? Was the visitor murdered?

We are assailed by the doubts of folly, we are disoriented in the same way the man with the lightbulb must have been in the initial scene. What was he doing with that lightbulb after all? We'll never know. Reviglio only gives us a partial vision and lets us hear the noise of the city that, unaware, keeps screaming its sorrow amidst the crazed sirens and the early morning ruckus. The other segments of the screenplay have been removed on purpose, our claustrophobia grows because Reviglio eliminates all the cause-effect relations and we can only hope for the best.

 

Now, when I walk down the street, I won’t just notice the homeless, the rows of trash bags, the dirt on the streets that you have to learn to live with. I'll also expect, any moment now, to walk by a window blocked by books, and shiver.

 

 

Amalia Piccinini is an artist and art critic who lives and works in New York. She is the correspondent from New York for Flash Art, and curates its online column New York-New York on contemporary art.

 


Tutto quella notte

di Amalia Piccinini

 

Quando mi trasferii a New York, nel 2005, tutti mi dicevano che la città era cambiata, che non era più la stessa di dieci anni prima, che l’inferno era passato e che la cattiva reputazione che il cinema aveva contribuito ad alimentare negli anni era svanita.

Eppure a me non sembrava una città serena, certo si poteva prendere la metropolitana senza paura, in giro si vedeva la polizia, la gente passeggiava tranquilla, eppure…

Camminavo per la città a tutte le ore, anche di notte, vivevo nel Greenwich Village e sotto le case degli attori famosi, vedevo i barboni dormire e urinare sui loro scalini. Altri erano agli angoli delle strade a urlarmi dietro con il bicchiere di carta per avere gli spicci, ricordo una sera che offrii un pezzo di pizza a una barbona, lei orgogliosa mi mandò a quel paese e io rimasi lì impotente con la scatola di pizza in mano.

Queste ed altre centinaia di scene simili sono per me quelle che Pietro Reviglio ha definito Cinematography of Urban Madness.

Osservando le foto del suo libro e leggendo i frammenti di una sceneggiatura interrotta forse da uno sparo o forse da una di quelle tante storie di cui parlavo sopra, si ha un senso di claustrofobia e di angoscia soffocante. Il protagonista, un artista solo nel proprio studio, potrebbe essere un vicino di casa del poeta Charles Bukowski ai tempi in cui viveva in vecchie stanze sporche, circondato da personaggi eccentrici e pieni di talento. Quei vicini che un giorno rimpiangerà perché l’avvento degli affitti troppo alti li ha fatti scappare tutti chissá dove lasciandolo senza ispirazione.

Ma qui non siamo nella Los Angeles di Bukowski, siamo in un interno newyorkese dalle stesse atmosfere, dove l’uomo alle prese con una lampadina ha perso l’equilibrio. Ci sono la notte e la solitudine che, come due amiche, lo guardano squarciare una tela con un colpo secco. Nessuno di noi ha capito cosa stia facendo quest’uomo, siamo preoccupati per lui, è vivo?  

Sembra di sì, nelle foto successive vediamo una finestra piena di libri che bloccano la vista dall’interno, continuando a leggere la sceneggiatura ci accorgiamo che ora c’é anche una donna con lui, ma quando è arrivata?

La tensione sale, il campanello suona, l’uomo prende il coltello e va verso la porta. Il visitatore viene trascinato dentro l’appartamento, la porta si chiude. Come in un quadro di Francis Bacon, vediamo l’uomo – artista rifugiarsi nel bagno, torturarsi davanti al lavandino e allo specchio, chiedere alla donna di spegnere la luce. Poi si lava le mani. Non sappiamo perché, ma immaginiamo qualcosa di brutto, l’uomo si uccide? La donna si uccide? Il visitatore è stato assassinato?

Siamo assaliti dai dubbi della follia, siamo disorientati come doveva esserlo l’uomo con la lampadina tra le mani nella scena iniziale. Cosa stava facendo poi con quella lampadina? Non lo sapremo mai, Reviglio ci concede solo una visione parziale e ci fa sentire i rumori della città che ignara continua a urlare il suo dolore tra sirene impazzite e schiamazzi del primo mattino. Mancano volutamente gli altri pezzi della sceneggiatura, la nostra claustrofobia aumenta perché Reviglio annulla tutti i rapporti di causa – effetto, e noi non possiamo che sperare nel meglio.

 

Così ora quando cammino, non ci sono più solo i barboni, le fila di sacchi d’immondizia e lo sporco per strada con cui convivere, mi aspetto anche da un momento all’altro di passare davanti a una finestra tappata dai libri e di rabbrividire.

 

 

Amalia Piccinini vive e lavora a New York come artista e critica d’arte. È corrispondente da New York per Flash Art, per la quale cura la rubrica online d’arte contemporanea New York - New York.