INTERVISTA

(dal volume Pietro Reviglio, a cura di Alessandro Botta, Edizioni Gli Ori, 2024) Copyright 2024. Tutti i diritti riservati.

 


(Alessandro Botta): Nasci a Torino nel 1976, gli studi in astrofisica ti portano a proseguire il percorso di ricercatore oltreoceano, dove ottieni il Ph.D presso la Columbia University di New York. In che contesto e con quali tempi si sviluppa la tua esigenza di avvicinamento al linguaggio artistico?

 

(Pietro Reviglio): Fu proprio attraverso l’astrofisica che trovai l’arte, così come molti anni prima era stato il mio amore per le immagini a farmi scegliere l’astrofisica… Tutto incominciò quando arrivai alla Columbia nel 2001, pochi mesi prima che la storia degli Stati Uniti venisse sconvolta dall’attacco alle Torri Gemelle. Passai qualche giorno a casa di uno dei professori del Dipartimento di Astronomia e Astrofisica–David Helfand–con cui avrei poi fatto la mia tesi di dottorato, e di sua moglie, Jada Rowland—un’attrice e pittrice. Era la prima volta che passavo del tempo tra pennelli e colori, tele e cornici. Pensai: e se un giorno provassi anch’io? Passò qualche anno prima che mi decidessi. Poi una mia amica, che stava facendo il suo dottorato in un’altra istituzione, mi parlò di una scuola d’arte dove avevano studiato molti dei grandi artisti americani, la Art Students League of New York. Iniziò tutto così–un po’ per scherzo, un po’ per sopravvivere alla dura vita newyorkese. Lì incontrai Robert Cenedella, un maestro della pittura satirica americana, pupillo di George Grosz. Poi Mary Beth McKenzie, una nota pittrice realista. E così iniziai a studiare pittura seriamente. Di giorno, le galassie; di sera, la pittura dal vivo. Il resto venne da sé.

 

A.B.: Dunque il tuo interesse per le arti visive si insinua a partire da questi anni o in qualche modo era già presente?

 

P.R.: C’è sempre stato, in realtà. Fin da bambino mi affascinava la luce, il colore. Ricordo che mia mamma aveva un piccolo lampadario di cristallo e, quando filtrava la luce del sole dalla finestra, la stanza da letto si riempiva di tanti piccoli arcobaleni. Spesso mi arrampicavo sul letto, facevo ruotare quel lampadario e li guardavo danzare tutt’intorno a me. Il mistero della diffrazione della luce si fondeva con la danza, con il colore, in un affresco meraviglioso. È un ricordo vivissimo. Così come quello degli acquerelli con cui mi divertivo a pasticciare, o il mio puzzle preferito che aveva per sfondo un cielo fatto di stelle.

 

A.B.: Astri, fenomeni luminosi e colori, il tuo percorso era già tracciato.

 

P.R.: Assolutamente. Ma il primo incontro con le arti visive fu con i pittori di strada sul lungomare della città dove si andava in vacanza. Obbligavo mia zia a portarmi a vederli lavorare quasi tutte le sere. Era magia vedere l’olio che si trasformava in forma, in volti, fiori, paesaggi. Ma fu solo quando vidi qualche scena di grande impatto visivo di “Profondo Rosso”, il film-culto del regista Dario Argento, che mi convinsi che “da grande” avrei voluto esplorare le arti visive. Il regista, pensavo. Fortunatamente non andò così. Il flusso della vita mi portò a esplorare altre possibilità prima di approdare nel mondo dell’arte.

 

A.B.: Tornando a New York, vedo molte figure e ritratti tra i tuoi primi lavori, verosimilmente colti dal “vero”. Come si svolgeva l’insegnamento didattico, con quali modalità e quanta libertà era lasciata alla tua personale vocazione? Se non sbaglio la Art Students Leagueistituzione storica nel campo della formazione indipendente (tra le cui fila maturarono alcuni dei protagonisti dell’Espressionismo astratto e della Pop art americana)ha da sempre mostrato una grande apertura verso il lavoro e le ricerche degli studenti.

 

P.R.: È vero. La Art Students League non ha un percorso di studio formale. Era nata a fine Ottocento come una lega di artisti che contestavano l’Accademia e volevano imparare le arti plastiche in modo diverso. Nei due anni in cui la frequentai io era un caleidoscopio di persone di tutte le età, con ogni tipo di background, e di tanti paesi diversi, che si incontravano per dipingere (scolpire, disegnare o esplorare il collage) sotto la guida di un artista di talento riconosciuto. Si vedeva la vita, in ogni suo colore e sfumatura con tutte le sue storie complesse, tragiche o luminose. Ognuno era libero di esprimersi come preferiva. In genere c’era un modello o una natura morta sulla quale lavorare nel mezzo di una grande stanza piena di cavalletti e pregna dell’odore acre di solventi e colori a olio. Si imparava facendo. Si riceveva qualche prezioso consiglio, qualche critica costruttiva. Tre ore di battaglia ogni sessione, ma il tempo sembrava volare cercando di cogliere sulla tela un volto, un’espressione, un’impressione… di posa in posa, di errore in errore, di frustrazione in frustrazione, nel silenzio rotto solo dal frusciare dei pennelli e dal trillo di una sveglia che concedeva un momento di riposo a chi posava, tutti si confrontavano con lo stesso problema da angolazioni diverse, senza competizioni o protagonismi. Era bellissimo.

 

A.B.: Mi parlavi poco fa dell’incontro e la rivelazione per il cinema, e in particolare per quello di Dario Argento. L'ibridazione dei linguaggi visivi e l’uso di medium differenti mi pare una cifra caratteristica del tuo lavoro, che continua tuttora ad essere indagata.

 

P.R.: Sì, la pittura è la radice, ma poi si è sviluppata in altre forme. Mi piace la purezza del mezzo e l’ibridazione dei linguaggi. Mi interessa come si possa fare pittura nella fotografia o cinematografia in un dipinto, o come un dipinto possa diventare una narrativa e una fotografia una forma di dipinto… Ogni lavoro è l’esplorazione di una nuova possibilità o di un vecchio problema irrisolto. In generale non mi interessa l’ibridazione dei materiali, perché la materia in sé non mi interessa affatto. È la luce che mi attrae, in tutti i suoi aspetti, fisici, pittorici, fotografici, cinematici, narrativi. E la sua negazione, ovviamente – le tenebre.

 

A.B.: Parallelamente allo studio della pittura prende avvio la tua ricerca fotografica, che ti porterà con il ciclo Cinematography of Urban Madness ad importi all’attenzione della critica. Sono immagini esistenziali, spesso violente, che indagano - con un portato molto affine al linguaggio cinematografico - la condizione da te vissuta in quegli anni. Potresti raccontare da dove nasce e come si sviluppa questo progetto?

 

P.R.: Il mio interesse per la fotografia in quegli anni nasce dalla necessità di fotografare i dipinti e si sviluppa nella ricerca di come possa il dipinto entrare nella fotografia come soggetto, o la possa soggiogare trasformandola in dipinto… La curatrice Yoo-Jong Kim della Walter Randel Gallery aveva notato queste fotografie in una piccola galleria giapponese dove avevo esposto alcune opere e mi aveva invogliato a continuare. Così, mi divertivo a sperimentare con gli oggetti della vita quotidiana, nel piccolo studio dove vivevo. Avevo già creato un corpo di fotografie, Physika, che sarebbe poi diventata la mia prima mostra personale, curata da Franz Paludetto al Centro per l’Arte Contemporanea del Castello di Rivara, in Italia, e un’altra serie fotografica, Murder of a Painting, dove la pittura si intrecciava con la violenza visivaUna sera, una delle lampadine che avevo usato per quelle serie cadde e si ruppe. Pensai: sarebbe un bell’inizio per una storia. Presi a fotografarla senza sapere esattamente dove sarei arrivato… Per diverse notti sperimentai con lampade, lampadine, dipinti, coltelli... Dalla luce stavo entrando nelle tenebre quasi senza accorgermene. Ma, in fondo, la follia era intorno a me… era la New York degli anni successivi al 9/11, della grande crisi finanziaria, e c’era tanta oscurità anche nella mia vita… Scattai molte foto, arruolando anche una mia amica, Shwetambari. Le organizzai molto tempo dopo, quando tornai in Italia e conobbi Paola Gribaudo che mi propose di fare un libro insieme per la sua collana di libri d’artista disegnodiverso. Iniziò la seconda fase di questo lavoro, che trasformò la fotografia in libro. Mi divertii a scrivere spezzoni di una sceneggiatura immaginaria, fatta di emozioni e ricordi, ispirata dalle immagini. Un processo cinematografico all’incontrario che univa alla fotografia un’altra mia passione: la scrittura. Amalia Piccinini, che scriveva per Flash Art e che avevo conosciuto alla Art Students League, scrisse un bellissimo testo critico per il libro che spiegava le atmosfere tra Bukowski e Bacon in cui si viveva in quegli anni e che ispirarono il lavoro… Tutto era irrazionale, illogico, la violenza si sentiva nelle strade, nelle urla dei disperati a notte fonda… Cinematography of Urban Madness era proprio questo, un collage di frammenti contraddittori di una storia irrazionale fatta di mistero e follia. Mi interessava raccontare la violenza che sfugge alla logica razionale…

 

A.B.: Un progetto che avrebbe presto assunto anche una declinazione espositiva.

 

P.R.: Sì. Quando il libro uscì, Alberto Weber mi invitò ad esporre nella sua galleria di Torino, e David Freedberg all’Italian Academy della Columbia University di cui era direttore. Fu in occasione di queste mostre che decisi di creare la terza fase del progetto, quella video – il trailer di un film che non esisteva, fatto di stills fotografiche, che completava l’ibridazione artistica di questo lavoro… Alla mostra di New York venne Robert Buck, che aveva diretto il Brooklyn Museum e che avevo conosciuto al Sunday Salon di Louise Bourgeois anni prima. Si appassionò al lavoro e ai suoi sviluppi. Alcune foto entrarono in collezioni museali americane. Nacque una bella amicizia, così come con Amalia e con Paola. Nel 2016 una delle foto venne presentata nella mostra Photography: Technology+Art curata da Emily Ackerman alla Mishkin Gallery di New York, insieme al lavoro di grandi artisti—da Nadar, a Andy Warhol, fino a Cindy Sherman. All’opening ricordo che venne Jonas Mekas con la sua cinepresa con la quale creava i suoi incredibili film. Ci conoscemmo e insistette per filmarmi… Rimanemmo in contatto fino alla sua morte e mi invitò l’anno dopo al grande gala di beneficenza per gli Anthology Film Archives di New York. E pensare che tutto questo è nato da una lampadina andata in frantumi…

 

A.B.: Ho qui di fronte due immagini del 2008, scattate nella tua abitazione newyorkese. Le tele invadono gli ambienti della casa, sono collocate al capezzale del letto o ancora appoggiate contro i muri della stanza, quasi a prefigurare un improbabile display espositivo. Mi pare che lo spazio abitativo – ma soprattutto gli oggetti che lo popolano – acquisiscano, da questo momento in poi, un ruolo sempre più dirimente nel tuo lavoro?

 

P.R.: Senza dubbio. Non c’era separazione tra lo spazio della vita e quello dell’arte. Gli ambienti con le loro suggestioni e dimensioni influenzavano profondamente il lavoro… abitai in tre appartamenti diversi negli anni newyorkesi, e il lavoro pittorico e fotografico si trasformò sia in dimensioni che atmosfere–più gioiose e luminose inizialmente, poi sempre più oscure… L’ultimo posto fu un piccolissimo monolocale che affacciava su Central Park West, nella parte nord, all’epoca non ancora gentrificata, dove si vedeva ancora lo spirito di Harlem… è un posto che ho amato molto, così ricco di suggestioni. È in questo studio che nacque Cinematography of Urban Madness. Vivere a contatto con le opere è stata una costante della mia vita artistica, anche in seguito–in Italia e poi a Londra. Anche per questo c’è un continuo flusso, ripensamento, reinvenzione, riassemblamento delle immagini che si sviluppano per associazione, sovrapposizione, trasformazione progressiva. Un dialogo fra le opere e le stanze in cui nascono, tra opere e architettura, tra le opere e il tempo. Alcune opere vengono riviste e ripensate ri-assemblate anche temporalmente—quello che accade nel futuro, torna a influenzare il passato. Si rompe il principio di causalità. Si creano delle strutture narrative stratificate, come delle partiture sinfoniche, che hanno una loro storia all’interno spesso somma di interventi di epoche diverse. In fondo quando guardiamo il cielo, o studiamo l’universo profondo, quello che vediamo è una sovrapposizione di oggetti osservati a tempi cosmici diversi… guardiamo brillare stelle ormai morte da tempo, o galassie nascenti agli albori della storia dell’universo…

 

A.B.: Lo spazio fisico della stanza si trasforma però ben presto in un luogo mentale, mnemonico. Rientrato in Italia nel 2010 intraprendi le serie Nocturnal Visions e Flowers of Grief. La tua pittura diventa più cupa e drammatica, quasi a segnare un momento di crisi o una difficoltà esistenziale vissuta.

 

P.R.: È vero. Tornato in Italia, mi concentrai sulla fotografia pittorica inizialmente... nessuno voleva sentire parlare di pittura “tradizionale” in quegli anni. Qualche tempo dopo, però, incontrai una pittrice, Lucia Nazzaro, che mi invogliò a continuare ad esplorare il mezzo pittorico. Diventammo grandi amici per affinità di interessi artistici… e metafisici. Proprio frequentando il suo studio conobbi il critico e filosofo Roberto Mastroianni che avrebbe curato qualche anno dopo la mia prima personale di pittura a Torino. Ricominciai a dipingere e la pittura era per me un ritornare negli spazi claustrofobici di New York, un reimmergersi in quella realtà che avevo lasciato, ripensarla, riviverla come visioni notturne, ore della notte dove si mescolava fantasia e realtà, sogno e incubo. Nacquero le Nocturnal Visions, alle quali lavorai tra Torino (in una minuscola mansarda in centro città, con poca luce e una scalinata lunghissima per arrivarci) e la cantina della casa di famiglia, in provincia, che sarebbe poi diventata un altro studio dove portare avanti il lavoro. Memorie dal sottosuolo, potremmo dire, parafrasando… Era l’inizio della discesa verso un inferno pittorico che attendeva di essere raccontato. E così feci. E mentre ritornavo nell’oscurità, arrivò anche il cancro—mia madre si ammalò—e dovetti trasferirmi in pianta stabile nella casa di famiglia. Nacquero i Flowers of Griefs in quel periodo, accompagnati dalla controparte fotografica, i Flowers of Darkness. La vita mi aveva di nuovo posto di fronte al tema dell’autodistruzione. Cos’è in fondo il cancro se non il corpo che uccide se stesso? È una malattia affascinante, in un certo senso—cellule che non vogliono accettare di morire e sacrificarsi per il bene comune iniziano a moltiplicarsi uccidendo il corpo stesso che le nutre e causando, a lungo andare, la loro stessa fine. Non è un attacco dall’esterno, come in Cinematography of Urban Madness. È una storia tutta basata sull’interno. Le stanze claustrofobiche si riempiono di vita, di flora, di fiori, che portano la morte, diventano stanze di ospedali, loculi, bare, ossessioni e paure. Dipingendo mi sembrava di comprendere qualcosa in più… anche nei quadri oscuri di questo periodo c’era comunque la luce, una luce che spiega, che illumina il male fisico e mentale, che cerca di trovare della bellezza anche nell’Orrore, di comprendere la perdita dell’identità, dell’esistenza, di se stessi. E proprio di questo mi occupai in Loss of Identity, la serie a cui lavorai l’anno successivo, dopo la morte di mio padre, e che portò poi alla Cosmologia del Male, gli ultimi dipinti che feci in Italia in questo periodo.

 

A.B.: Osservando le tue opere ricorre in maniera molto forte - quasi pervasiva - il soggetto dello specchio. Che significato ha assunto e assume tuttora, per te, questo elemento?

 

P.R.: Per me lo specchio è riflessione sull’esistenza e la sua origine. È specchio che racconta storie nella storia, è elemento di conoscenza di sé e degli altri, ma è soprattutto la manifestazione di un disagio. È perdita di identità, è specchio dell’anima. Nelle ultime serie di questi anni diventa uno specchio cosmico in cui si riflette l’esistenza o la sua negazione. Non so esattamente da dove venga questa ossessione per lo specchio, in particolare lo specchio ovale… forse un ricordo inconscio dal film Profondo Rosso… o del racconto “The Oval Portrait” di Edgar Allan Poe. Io lascio sempre emergere le immagini spontaneamente, non le pianifico, quindi posso solo interpretare l’opera a posteriori. L’ovale mi affascina, così come mi affascinano le ellissi che descrivono i pianeti nel loro moto intorno al sole. Non cerchi perfetti, ma imperfetti, che pur mantengono la perfezione della legge matematica. L’ellisse è una forma geometrica essenziale. Non si può prescindere da essa. Così come non si può prescindere dal colore rosso. Da essi si genera tutto il resto, almeno nel mio lavoro.

 

A.B.: Continui ad evocare riferimenti o suggestioni (il cinema, adesso la letteratura) estranee al campo più convenzionalmente figurativo. Quali sono, invece, gli artisti - del presente o del passato - che hanno avuto un ruolo determinante nella formazione del tuo percorso?

 

P.R.: Nessuno, temo. Ho iniziato il mio percorso spontaneamente, ho imparato sperimentando, e non ho mai studiato la teoria. Non ho dovuto scrivere tesi su nessun artista… solo sulla struttura a grande scala dell’universo e le galassie che la popolano. Ero (e sono) libero—la mia più grande fortuna, perché posso sperimentare in ogni direzione che ritengo interessante e tessere legami tra le cose che mi affascinano, senza sovrastrutture. L’unica vera sfida è con l’universo e le sue leggi, non certo con la storia e il pensiero umano… Nel tempo ho però trovato sintonia con alcuni artisti—Van Gogh, di cui amo i disegni e le lettere in particolare, Édouard Manet, Henri Matisse, Francis Bacon, e Louise Bourgeois. Tutti irregolari dell’arte come me, con percorsi accidentati, che hanno imparato e detto quello che volevano dire con la dedizione totale alla loro pratica artistica. Penso sia bello interessarsi a un problema artistico o scientifico, cercare di risolverlo da soli e poi confrontarsi con altri che hanno lavorato allo stesso problema. Da bambino ricordo che mi piacevano anche le copertine dei gialli Mondadori illustrate da Ferenc Pintér, e i disegni della mamma di una mia amica, anche lei ungherese. Mi hanno sempre affascinato i disegni di Michelangelo e Leonardo, e la prospettiva universale della loro arte. Negli ultimi anni ho avuto conversazioni molto belle e proficue con Lucia Nazzaro. Il suo lavoro, di cui ho grande rispetto, è complementare al mio… anche cromaticamente—usa solo il bianco e il nero.

 

A.B.: Nel 2014 decidi di prendere uno studio e andare a vivere a Londra. Quali sono le motivazioni di questo cambiamento?

 

P.R.: Passata la tempesta, decisi di continuare ad esplorare altre possibilità. Attraverso Robert Buck conobbi in un viaggio a Berlino, un’artista londinese, Willow Winston. Questo incontro e altre conoscenze che avevo fatto con persone che vivevano a Londra (oltre alle pressioni di Bob) mi convinsero a rifare i bagagli e continuare con la mia vita nomadica. In fondo ero cresciuto leggendo Agatha Christie, guardando film di Alfred Hitchcock e con una grande ammirazione per il talento delle attrici inglesi–perché non dare una chance a Londra? Mi stabilii nel quartiere di Borough, a sud del Tamigi, in un appartamento che trasformai in un live-and-work artist studio. Non c’era quasi mobilio, solo tele di dipinti fatti in Italia o a New York che mi avevano seguito a Londra, e nuovi dipinti che presero forma in quei mesi. Era una pagina nuova, ritornava il colore, ma un colore in cui cercavo di raccontare l’allucinazione, la perdita di contatto con la realtà, la sovrapposizione del mondo fisico con quello mentale. Nacquero i Borough Paintings, opere di formato più grande, in cui si mescolavano temi e pensieri elaborati in precedenza, ma in un’atmosfera completamente nuova, con una nuova riconquistata libertà, alla quale però non si accompagnava una nuova tranquillità… Londra proponeva nuovi stimoli, ma anche nuovi problemi… non fu un inizio facile. Dopo un anno e mezzo trovai un nuovo studio dalle parti di Shoreditch, uno dei quartieri storici della scena artistica britannica, e decisi di dividere arte e vita… cominciai a spostarmi di quartiere in quartiere, come d’abitudine… King’s Cross, Camberwell, Shoreditch, poi da una mia amica nella zona di Greenwich, non lontano dal famoso meridiano… ho perso il conto di quanti traslochi ho fatto nella mia vita… solo lo studio era il punto fisso e mi permetteva altri esperimenti pittorici, e di liberare il gesto artistico, così come di confrontarmi con altri artisti e con la gente. Di tanto in tanto apriamo gli studi a visitatori. C’è un forte senso di comunità a Londra, che non ho riscontrato altrove.

 

​​A.B.: A partire da questa stagione mi pare che riaffiori nelle tue opere la formazione e l’esperienza dello scienziato. Una nuova consapevolezza, una rimeditazione forse, su quanto realtà apparentemente inconciliabili (l’irrazionalità dei processi mentali, inconsci, opposti alla logica della fisica) possano coesistere e dialogare tra loro?

 

P.R.: Sì, i tempi erano maturi per cercare una sintesi tra pittura e cosmologia, tra queste due parti della mia vita… nella fotografia la sintesi era stata semplice. La fotografia è un mezzo di indagine scientifica e si presta bene a questo tipo di discorso. Avevo lavorato a serie fotografiche come PhysikaThe Weight of TimeRiemanniana negli anni precedenti, ma una soluzione del problema nell’ambito della pittura non la vedevo... A me interessava trovare un modo per far diventare cosmologia la pittura stessa, trasformarla in fisica, e non dipingere soggetti astronomici o cosmologici… per creare una cosmogonia pittorica occorreva aspettare che si trasformasse la mia tecnica pittorica... Fu il nuovo studio a Shoreditch che mi permise di arrivarci. Qui, dopo qualche tempo nacquero i dipinti che poi raggruppai nella serie Harmonics of Color and Madness, dove la pennellata diventa onda o nota musicale e si fonde con lo schizzo di colore creando quadri fisicamente violenti… a volte la tela stessa si strappa a causa dell’irruenza del gesto. Questa serie portò poi ai Cosmological Paintings, per poi arrivare, anni dopo, all’incontro del cosmo e delle altre dimensioni con la figura umana nella serie Figures Lost in Cosmological Space e la recente Tales of Cosmological Darkness.

 

A.B.: Da quali presupposti e in che termini si sviluppa questa tua nuova ricerca?

 

P.R.: In queste serie riflettevo sulla natura violenta del cosmo e sulla sua irrazionalità. Tutta la fisica scoperta nel secolo passato ha ribaltato il paradigma logico e deterministico del secolo precedente. La fisica contemporanea si basa sui paradossi della meccanica quantistica ormai ampiamente dimostrati—dal fatto che le particelle si comportano come onde e come corpuscoli alla stesso tempo, all’azione spettrale a distanza che probabilmente faceva passare tante notti insonni ad Einstein Senza contare che la meccanica quantistica necessita dei numeri immaginari, che appunto non esistono nel reale perché sono soluzioni di equazioni algebriche impossibili… L’impossibile è necessario per spiegare il possibile, cioè il reale… com’è possibile tutto ciò? senza contare tutti gli altri misteri come la materia oscura, l’energia oscura, l’inconciliabilità della meccanica quantistica e della relatività generale, o il mistero del fine-tuning—il fatto che i parametri e le costanti della fisica paiono essere scelti con grandissima cura affinché l’universo possa essere stabile e la vita possa svilupparsi, un fatto che mal si accorda con l’idea di universo che nasca da processi casuali. Insomma, un manicomio…

In questa prospettiva era molto eccitante l’idea di immergersi nuovamente in questo mondo, con una nuova consapevolezza ed un occhio diverso. L’irrazionalità è l’essenza dell’arte, che ha sempre raccontato almeno fino all’inizio del secolo scorso il trascendente, l’impossibile, l’onirico, la follia…

Dal mio punto di vista i processi di continua creazione e distruzione delle strutture dal microcosmo subnucleare al macrocosmo dell’universo mi sembravano un grande, terribile omicidio cosmico, continuo, eterno. Sia dalla prospettiva materialista che da quella religiosa che senso aveva tutto ciò?

Dipinsi, pensai, disegnai, lessi. Dipinsi ancora… Mi parve di intuire qualcosa di più ad ogni dipinto… Dopo la follia della mente, mi stavo immergendo nella follia di un universo impossibile, violento, eppure bellissimo…

 

A.B.: Poi che cosa accade?

 

P.R.: Poi accadde un fatto inatteso. Attilio Ferrari, con cui avevo studiato astrofisica, mi invitò a creare un film per il Planetario di Torino. Era il 2016. Incoscientemente accettai poiché mi fu data carta bianca su cosa presentare… ma non avevo ben chiari i problemi tecnici di creare un film per cupola. Avevo solo creato delle opere di video-arte come The Oval Mirror, Window over the Sky e The Silent Scream, ma questa era tutta un’altra cosa. Lavorai tantissimo per mesi per imparare le tecniche di animazione necessarie per trasformare i miei dipinti in un viaggio nell’universo, oltre l’infinito e combinarli con le immagini dell’Hubble Space Telescope…. Nacque Beyond Infinity, dopo mesi di viaggi tra Londra e Torino e molte notti insonni…

La geometria sferica della cupola permetteva di trasformare i dipinti, di farli interagire, come se fossero materia nel flusso dell’universo, deformato dalla geometria dello spazio-tempo. Il progetto ebbe più successo di quanto non immaginassi e venne presentato in Portogallo, in Francia e poi a Pechino. Dall’Oriente all’Occidente sembrava che il pubblico fosse particolarmente toccato da questo viaggio cosmico… astratto… dove arte e cosmologia si fondevano… Ripresi i contatti con il mondo dell’astrofisica, in particolare con alcuni degli scienziati con cui avevo lavorato durante i miei anni di dottorato—David Helfand alla Columbia, Margaret Geller all’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, e Antonaldo Diaferio all’Università di Torino. Tutti sembravano interessati a questo atteso incontro tra le mie due anime. Penso che il film scientifico di Margaret “So Many Galaxies, so Little Time” (1992) sulle prime mappe dell’universo che lei e il suo gruppo avevano prodotto sia stato una fonte di ispirazione nella concezione di Beyond Infinity. Non che io sia il solo artista ad essere stato ispirato da quelle mappe—so che la prima è stata recentemente utilizzata da Jasper Johns in uno dei suoi dipinti…

Dopo la proiezione a Pechino, venni invitato dal China Science and Technology Museum a presentare il film successivo per schermo gigante. Lo intitolai Journey of Endless Time. Un viaggio del tempo nel tempo, un incontro tra Oriente e Occidente nelle profondità del cosmo… in Europa riuscii a presentarlo solo a Parigi, al Centro di Cultura della Repubblica Ceca, come parte del festival Signes de Nuit… poi scoppiò la pandemia e il mondo si fermò.

 

A.B.: Il tema del viaggio ritorna costantemente nei lavori più recenti. La natura nomade e il tuo essere fondamentalmente apolide si intreccia con l’immaginario della vastità cosmica, infinita e inesplorabile. Mi parlavi di un tuo interesse verso forme empiriche di conoscenza, che travalicano il campo della scienza pura. Potresti spiegare queste tue recenti predilezioni?

 

P.R.: Viaggiare fisicamente è stata più una necessità che un mio desiderio, ma il viaggio con la mente mi ha sempre affascinato: il viaggio negli altri mondi che la pittura permette di esplorare, cosí come i grandi viaggi letterari—penso a On the Road di Kerouac o Furore di Steinbeck che mi aveva fatto amare l’America prima ancora di trasferirmi—o il viaggio mentale per visualizzare le strutture dell’universo e i suoi processi fisici… Molto del mio lavoro scientifico è stato proprio mappare e studiare le proprietà delle galassie nelle diverse regioni cosmiche… Ma le mappe spesso ci indicano i limiti della nostra conoscenza… Hic sunt dracones (Qui ci sono i dragoni) scrivevano i cartografi medievali dove iniziava la terra incognita. Beyond Infinity si interrogava proprio su questa zona oltre l’orizzonte degli eventi, dove finisce la conoscenza possibile dell’universo secondo la teoria della relatività. Che cosa succede nella terra incognita? Che fine fa l’esperienza umana? 

Qui la fisica contemporanea depone le armi… Non che gli scienziati non si siano appassionati al problema nel corso dei secoli… Keplero scoprì le leggi dei moti planetari proprio cercando le armonie cosmiche che avrebbero dimostrato l’esistenza di Dio dal suo punto di vista… Newton, forse il più grande fisico di tutti i tempi, ha scritto più di teologia cristiana che di fisica… e così tanti altri prima e dopo di loro, hanno unito fede e ricerca scientifica… il discorso metafisico non è così distante da quello scientifico come alcuni pensano, o vogliono pensare… ma il Dio razionale dei filosofi o degli scienziati non mi interessa molto. Il pensiero umano non può contenere l’infinito e infatti si scontra subito con paradossi e contraddizioni. L’Impossibile deve necessariamente essere la caratteristica del trascendente. 

 

A.B.: Se il pensiero scientifico si arrende di fronte a determinati interrogativi l’arte può forse dare una risposta a queste domande?

 

P.R.: Dove finisce la fisica inizia l’arte come forma di conoscenza empirica, spirituale, irrazionale… in fondo cos’è la pittura se non contemplazione, preghiera laica o religiosa a seconda delle epoche e degli artisti, e dono verso Dio, la natura o l’umanità? 

La religione o il pensiero laico usati come mezzo di sopruso, potere, indottrinamento violento mi hanno sempre fatto orrore. Ma la trascendenza, la fede fanno parte di me e del mio viaggio. Quando si fa l’esperienza del trascendente, come è successo a me fin da bambino, si entra nella terra incognita e non si può tornare indietro. Simone Weil è la filosofa che forse meglio l’ha raccontato, dopo la sua esperienza mistica che trasformò radicalmente il suo pensiero. Per me la pratica artistica deve indagare, raccontare proprio la terra incognita, come fine ultimo. Nell’arte, fede e scienza si possono incontrare e non scontrare… e forse si può intuire qualche risposta alle grandi domande sull’esistenza e sulla sua irrazionalità.

Negli ultimi anni, accanto alla mia pratica artistica, mi sono appassionato alla mistica cattolica che, confesso, non conoscevo, essendo stato io figlio, in qualche modo, del positivismo francese e di un passato un po’ tormentato… Paradossalmente è stato proprio attraverso il mio grande amore per la Francia e la sua arte, che ci sono arrivato… studiavo la lingua pensando di trasferirmi a Parigi e mi ritrovai tra le mani, non so bene come, Histoire d’une âme(Storia di un’anima) di Thérèse de Lisieux… di lei sapevo poco, solo che Edith Piaf, l’iconica cantante francese che a me piaceva tanto, ne era devotissima, avendo riacquistato la vista da bambina per sua intercessione come raccontava lei stessa. Col mio francese molto approssimativo lo lessi tutto d’un fiato. Si aprì un mondo. Ho letto tantissimo da allora, scoprendo moltissime cose interessanti anche legate alla mia pratica artistica… Per esempio, nelle visioni dell’Inferno di Faustina Kowalska e Maria Valtorta ho trovato la miglior descrizione della mia visione o esperienza dell’Inferno che ho raccontato negli anni nella mia pittura… Moltissimi degli autori e artisti che mi piacciono per tematiche o tecnica ho poi scoperto essere devoti cattolici—Hitchcock, Argento, Andy Warhol, Jack Kerouac, Oscar Wilde, Michelangelo tanto per citarne alcuni… E poi Salvador Dalí, che si convertì proprio quando gli fu commissionato di dipingere la visione dell’Inferno avuta dai tre bambini di Fatima.

In fondo ‘cattolico’, dal greco καϑολικός, significa universale e a me questa universalità che ha ispirato tanti artisti prima di me piace, piace soprattutto nella sua natura e nelle sue manifestazioni mistiche… nell’amore verso l’Amore Infinito che crea l’universo e la nostra esistenza, e nell’amore verso gli altri. Ho visto una mostra molto interessante su San Francesco d’Assisi alla National Gallery a Londra nel 2023. Figure come la sua, con il suo cambio radicale di vita e il suo amore radicale per Dio, la gente e la natura, penso siano molto contemporanee e di grande ispirazione per il presente, anche artisticamente. Leggendo ne ho trovate molte a me completamente ignote, soprattutto donne che sono diventate quasi delle amiche, delle compagne di viaggio… Comprendo meglio anche Van Gogh, il mio pittore di riferimento, e la sua pittura che ha la radice nella sua profonda fede protestante.

 

A.B.: Nel contesto del tuo lavoro, hai tentato - o stai tentando - di sviluppare questi argomenti? 

 

P.R.: Quest’incontro con la mistica ha influenzato le serie pittoriche Tales of Cosmological Darkness e Symphonies from the Other World, alle quali sto ancora lavorando… L’ultimo mio dipinto del 2023 è stata una crocifissione ispirata dalla visione della Passione di Cristo ricevuta da Maria Valtorta ottant’anni fa e raccontata nel suo L’Evangelo come mi è stato rivelato (1956), opera che fu messa all’Indice dei libri proibiti negli anni cinquanta, anche se oggi le spoglie di Valtorta sono sepolte nella Basilica della SS. Annunziata di Firenze… Mai avrei pensato di confrontarmi con questo tema in un dipinto, anche se avevo già riflettuto anni fa sul dolore assoluto e universale di Maria, sua madre —la madre di Dio— nel quadro The Sorrowful Mother. Ma il racconto della Passione di Maria Valtorta è un pugno al cuore. E in fondo, dal punto di vista umano, la tortura e uccisione dell’Innocente è il più grande degli orrori… e metafisicamente, l’Omicidio di Dio precipita l’essere umano alla sua morte nell’Orrore assoluto del Nulla, o della dannazione eterna… visto il mio percorso, non potevo non confrontarmi con tutto ciò. E continuerò a farlo in futuro. La redenzione dell’Orrore è stato uno dei motivi fondamentali di questo viaggio. 

 

A.B.: Un viaggio che ti ha portato dalla stanza alla città, dalla città al mondo, poi al cielo, all’universo (ma il percorso si potrebbe, volendo, leggere anche in maniera inversa).

 

P.R.: Sì, un viaggio dell'essere umano nel cosmo, del cosmo nell’essere umano, e poi nei paesaggi misteriosi della trascendenza. Forse pensando così si comprende meglio il mio lavoro, questo intrecciarsi di paesaggi cosmici, nature morte che diventano paesaggi onirici o apocalittici, ritratti che sono paesaggi mentali, figure, incontri, storie che si intrecciano, sovrappongono, pittura che diventa disegno di luce, luce che si trasforma in forma, corpo, flusso e viaggia, viaggia, viaggia... fin oltre l’infinito… Un viaggio tra orrore e bellezza, in cui nessuno è escluso. Un viaggio nel mistero di esistere.

 

Torino, Aprile 2024

 

Alessandro Botta è professore di Storia dell'Arte Contemporanea all'Accademia Albertina di Torino.